sabato 14 agosto 2021

Uno in meno!




... copio e incollo perché condivido ogni singola parola ...

A dimostrazione che non sempre muoiono i migliori, giunge notizia che Gino Strada sia giunto alla fine del cammino. A quanti ne piangono la morte, va il mio rispetto, piangono l'uomo capace di fondare Emergency, di creare tanti ospedali da campo, di aver dato asilo agli ultimi, ai disperati, ai malati. Ogni uomo ha la sua Storia, il suo vissuto e quasi mai ciò che si vede è. 

L'uomo ha un passato da picchiatore, massacratore comunista, tanto per dare il senso giusto alle parole, e il giusto peso alle azioni; l'uomo ha un nome di battaglia come tutti gli eroi "partigiani", perché è di un partigiano che parliamo ,nel senso più letterale del termine: di parte. L'uomo chiamato "chiave inglese" era quello che forte dell'assistenza di altri 9/10 criminali come lui, assaltava il primo Missino o presunto tale, ed a colpi di chiave inglese appunto, lo mandava all'ospedale, a volte in coma, a volte con traumi irreversibili a volte all'obitorio, come nel caso di Sergio Ramelli morto dopo un'agonia di 47 giorni. 

Nei suoi ospedali, i militari Italiani feriti, venivano curati, e non sempre, dopo gli altri, per ultimi, in base a discriminazione personale. 

Allora io non mi aggiungo al lacrimatoio Nazionale, rifiuto i "coccodrilli" TV, immagino l'incenso che verrà versato nei telegiornali serali, mi sembra già di leggere i commenti dei giornali, mi limito a voler mostrare l'altra faccia dell'uomo, il mio dire non ha pretesa di giudizio, il giudizio ultimo non spetta agli uomini.

Non tutti, anzi, pochi italiani conoscono la vera storia di Gino Strada, l’icona della sinistra che si permette di elargire patenti di razzismo a chiunque non la pensi come lui. 
Forse è giusto rivangare la memoria, riproponendovi un ritratto di questo personaggio che qualche anno fa fece il grande giornalista Gigi Moncalvo:

C’è uno strano caso di “silenzio stampa” in questo nostro grande paese: quello riguardante il passato violento del dottor Gino Strada. Il pacifista, la colomba, l’uomo che ama il bene e fa del bene, il missionario laico che va in soccorso degli oppressi, colui che predica col ramoscello d’ulivo in bocca, è lo stesso che faceva da “luogotenente” – insieme al futuro odontoiatra Leghissa – a Luca Cafiero il famigerato capo del servizio d’ordine del famigerato Movimento Studentesco del l’Università Statale di Milano, quello dei terribili e mai dimenticati “katanghesi”. Sì, è proprio lui: il “pacifista” Gino Strada, colui che oggi dà dei “delinquenti politici” agli esponenti della casa della Libertà e dei DS che non vogliono soggiacere ai suoi diktat di aspirante leader politico che sogna un seggio in Parlamento. Per l’esattezza Strada, insieme a Leghissa, era il capo del servizio d’ordine di Medicina e Scienze e il suo gruppo o squadra aveva questo inequivocabile nome: “Lenin”. Rispetto ai capi degli altri servizi d’ordine – ad esempio Mario Martucci per la Bocconi e il suo gruppo “Stalin”, o Franco Origoni per la squadra di Architettura, o Roberto Tuminelli, l’erede delle famose scuole private per il recupero-anni, alla guida del gruppo “Dimitroff”, il bulgaro segretario della Terza Internazionale accusato da Hitler di aver incendiato il Reichstag – il gruppo guidato da Strada si distingueva per la più cieca obbedienza e fedeltà a quel fior di democratico e di amante dei diritti civili che rispondeva al nome di Luca Cafiero, capo supremo di tutti i Servizi d’Ordine e poi divenuto deputato del PCI, candidato a Napoli, dove superò addirittura in fatto di preferenze l’on. Giorgio Napolitano. Ora Cafiero è ritornato a fare il docente universitario alla facoltà di Filosofia della Statale. 
Al comando generale e assoluto di Cafiero c’erano i gruppi “Stalin”, “Dimitroff” e tanti altri – ciascuno dei quali aveva uno o più sotto-capi -, ma era il “Lenin” di Gino Strada che si distingueva per la prontezza e la capacità di intervento laddove ce ne fosse stato bisogno.

In sostanza, ancora ben lontano dallo scoprire il suo attuale animo pacifista, Gino Strada era uno degli uomini di punta di quel Movimento dichiaratamente marxista-leninista-stalinista-maoista che aveva i suoi uomini guida in Mario Capanna, Salvatore “Turi” Toscano e Luca Cafiero.

I milanesi, e non solo loro, ricordano benissimo quegli anni, e soprattutto quei sabati di violenza, di scontri, di disordini. Ma ora nessuno dice loro che ad accendere quelle scintille c’era anche l’odierno “predicatore” Gino Strada. 
Solo che allora non aveva dimestichezza con le colombe bianche, le bandiere multicolori, il rispetto altrui, il ramoscello d’ulivo. 
Ma era molto di più avvezzo ai seguenti segni identificativi: l’eskimo, il casco da combattimento, e l’obbligo di portare con sé, 24 ore su 24, le “caramelle”: cioè due sassi nelle tasche e soprattutto “la penna”, cioè la famosa Hazet 36 cromata, una chiave inglese d’acciaio lunga quasi mezzo metro nascosta sotto l’eskimo o nelle tasche del loden.
Alla “penna” – si usava questo termine durante le telefonate per evitare problemi con le intercettazioni – si era arrivati partendo dalla “stagetta” (i manici di piccone che avevano il difetto di spezzarsi al contatto col cranio da colpire), dalle mazze con avvitato un bullone sulla sommità per fare più male, e dai tondini di ferro usati per armare il cemento, ma anch’essi non adatti poiché si piegavano.

I katanghesi e il loro servizio d’ordine, Gino Strada in testa, erano arrivati a questa scelta finale in fatto di armamentario, su esplicita indicazione del loro collegio di difesa che allineava nomi oggi famosissimi come quello di Gaetano Pecorella, Marco Janni, Gigi Mariani, insieme ad altre decine di futuri principi del foro, mentre sul fronte dei “Magistrati Democratici” spiccava la figura di Edmondo Bruti Liberati.

In Afganistan, i talebani che rimanevano feriti nei conflitti a fuoco, lui e i suoi complici, li andavano a curare nelle abitazioni, in quanto se fossero andati negli Ospedali, venivano prima curati, poi arrestati ed infine impiccati perché terroristi.
E infatti Gino Strada fu anche indagato per favoreggiamento e sospettato di spionaggio a favore dei Talebani.

giovedì 12 agosto 2021

LA STRAGE DI SANT'ANNA DI STAZZEMA

Rileggiamo la vera storia della così detta strage di Sant'Anna di Stazzema... se questo è accaduto bisogna trovare i responsabili sempre in quelle merde dei partigiani della "Garibaldi"...

è lungo ma vale la pena leggere la vera storia...


LA STRAGE DI SANT'ANNA DI STAZZEMA


Un bel articolo con alcune interviste fa finalmente luce sull'orrenda strage di Sant'Anna di Stazzema

Invitiamo tutti a leggerlo, ovviamente non esiste perdono per questa strage compiuta dai nazifascisti, esistono colpe sul perché è successo e vanno come sempre ricercate tra i delinquenti partigiani, i nazifascisti applicarono regole di guerra ben note ai partigiani. 


La storia della Resistenza comunista italiana è costellata da episodi talmente orrendi che sembrano, visti con gli occhi di oggi, assurdi e incredibili. In realtà tali episodi non furono né casuali né sporadici; i partigiani seguivano una linea ideologica e strategica ben precisa e già collaudata alla nascita dell’Unione Sovietica. Per potere perseguire la logica della resistenza comunista, rappresentata dalla strategia del terrore, servivano uomini che sapevano essere cinici e sanguinari, perché solo chi é permeato da tanta disumanitá puó apprezzare l’ideologia comunista.


La presenza permanente ed attiva dei criminali comuni all’interno della resistenza non deve per nulla stupire. Tra delinquenti della peggior specie e partigiani non c’era nessuna differenza e nessuna divergenza, sia di vedute che di comportamento anzi, la posizione dei partigiani è più grave perché, sia la pianificazione che l’esecuzione dei delitti erano la risultante della più sanguinaria freddezza e del più cinico odio ideologico. Ecco perché i crimini della resistenza sono particolarmente efferati. Che fossero dei criminali comuni o criminali guidati dall’ideologia (questo erano i partigiani), tutti gli autori di delitti furono coperti con ogni mezzo e in modo sistematico, sia dall’apparato del partito comunista italiano che da quello sovietico, sino ad organizzarne, qualora non ci fossero altri mezzi per proteggerli, la loro fuga ed il mantenimento nell’Unione Sovietica di Stalin.Tra gli innumerevoli esempi che consentono di comprendere perfettamente quale era la costante che contraddistinse sempre la strategia delle bande armate comuniste, si puó citare la tragica vicenda che il 12 agosto 1944 coinvolse Sant’Anna di Stazzema, un paesino dell’entroterra Lucchese, localitá nota come paese “vittima di stragi” da parte tedesca e fascista.


In realtá anche in questo caso, nulla togliendo alla crudezza germanica, furono i partigiani a fare inferocire i tedeschi, con il preciso scopo di indurli a compiere una rappresaglia, (che porterà alla fucilazione di quasi tutti gli abitanti del piccolo borgo).


Prima di addentrarci nella lettura che segue, vorrei fare una premessa! è ormai risaputo che il mesto operato dei partigiani non fu mai di nessuna importanza per le sorti del conflitto, come se ciò non bastasse, gli alleati, che pure si servirono di questi mascalzoni, non li ebbero mai in alcuna considerazione, tanto che essi per primi li considerarono sempre dei viscidi criminali.


Dell’amara vicenda di questo piccolo borgo ci sono chiare testimonianze di alcuni sopravvissuti. Tra di essi il signor Duilio Pieri, che nella strage perdette il padre, la moglie, due fratelli, le cognate e quattro nipotini, e che dal 1945 è presidente del locale “Comitato vittime civili di guerra”. I partigiani in questione erano i criminali della brigata 10/bis Garibaldi, i quali seguivano l’ormai collaudata tecnica: per prima cosa effettuarono alcuni agguati contro i tedeschi, che a loro volta risposero con una serrata ricerca dei ribelli nelle campagne circostanti al paesino. In quell’occasione i partigiani si introdussero a forza dentro le case e da lì spararono contro i tedeschi (questa operazione mirava a indurre i tedeschi a pensare che tra la gente del posto vi erano partigiani, o che la gente del posto desse loro protezione, azione che faceva scattare il diritto di rappresaglia).


A loro volta i tedeschi effettuarono una prima rappresaglia nella quale si limitarono a dare alle fiamme le case da dove erano partiti i colpi. Ma i partigiani continueranno nei loro agguati, sempre col medesimo scopo, indurre i tedeschi (in quel caso si trattava di un battaglione della 16° Divisione SS Reichsführer) a compiere altre rappresaglie. Con l’intento di non fare sfollare i civili, per farli uccidere, i partigiani tranquillizzarono la gente del posto assicurando loro che in caso di una nuova rappresaglia li avrebbero difesi. Infatti ben presto i tedeschi, decisi a “bonificare” la zona, affissero l’avviso di sgombero della popolazione per via dell’imminente rappresaglia (con tanto di avviso che avvertiva che chiunque fosse stato trovato nell’abitato sarebbe stato passato per le armi perché considerato fiancheggiatore dei partigiani).


Racconta Amos Moriconi, un ex minatore che in quel periodo faceva il fornaio, che nella strage perdette la moglie, la figlioletta di due anni, la madre, due sorelle, un fratello e il suocero.<<(…) I comunisti però intervennero subito, strappando il manifesto tedesco e affiggendone un altro nel quale facevano obbligo ai civili di non muoversi. Che cosa dovevamo fare? Eravamo presi tra due fuochi. La presenza minacciosa dei partigiani comunisti era molto più concreta di qualsiasi ordinanza tedesca. Così restammo tutti. Gli abitanti di Sant’Anna, gli sfollati che avevano cercato salvezza nel borgo appenninico non potevano certo sospettare, in quei momenti, che i comandi comunisti avevano freddamente deciso di sacrificarli. I partigiani calcolarono infatti cinicamente che le SS avrebbero scambiato gli uomini di Sant’Anna per partigiani comunisti e li avrebbero massacrati, tornando quindi alle loro basi con la certezza di aver “ripulito” la zona.>> Amos Moriconi continua il racconto:<<(…)Ricordo che affrontai uno degli ultimi partigiani che si accingevano a lasciare il paese e gli dissi: “Perché ci abbandonate? Voi sapete bene di averci infilato in una rete e sapete anche che i tedeschi non ci risparmieranno. Avevate promesso di difenderci. Dove ve ne andate adesso?”. Ma quello mi guardò ghignando e si allontanò senza rispondermi>>.


Ben si comprende quindi che la strategia delle bande comuniste era quella di condurre a morte certa i civili.


Racconta ancora, Amos Moriconi. <<La strage incominciò poco dopo le sei del mattino. I tedeschi, circondata la vasta conca dell’anfiteatro dove sorge Sant’Anna, si divisero in squadre, penetrando simultaneamente nelle diverse frazioni che compongono il paese: Argentiera, Le Case, Franchi, Vaccareccia, Coletti, Bambini, Colle, Sennari e Molini.


La popolazione venne colta di sorpresa. L’allarme però corse fulmineo di casa in casa e furono numerosi coloro che riuscirono a mettersi in salvo gettandosi nei boschi che circondano Sant’Anna. Ma, come già era accaduto in occasione di precedenti allarmi del genere, solo gli uomini tra i 18 e i 60 anni cercarono scampo. Fino a quel momento, infatti, l’incubo della rappresaglia aveva sempre risparmiato, almeno nello Stazzemese, i vecchi, le donne e i bambini.


Nessuno in paese, quella mattina, poteva sospettare che i tedeschi fossero decisi a uccidere senza pietà, quali “fiancheggiatori” dei partigiani, tutti gli abitanti di Sant’Anna. Nessuno poteva immaginarlo, ad eccezione però di alcune persone: i capi partigiani comunisti della zona. Questi, infatti, sapevano benissimo che i tedeschi, quando ritenevano di dover eliminare qualsiasi presenza partigiana in un determinato settore, non esitavano a massacrare anche i civili che abitavano nella zona. Lo sapevano anche perché proprio in quelle ultime settimane, e specie nel territorio della provincia di Arezzo, centinaia di innocenti erano stati trucidati nel corso di alcune feroci ritorsioni scatenate dalla attività criminose di formazioni partigiane rosse. Ma i capi comunisti, fedeli alle direttive della “guerra privata” condotta dall’organizzazione rossa, si guardarono bene dal mettere sull’avviso gli abitanti di Sant’Anna: a loro, quegli uomini, quelle donne, quei bambini, facevano più comodo da morti che da vivi, visto e considerato, tra l’altro, che nessuno degli abitanti del paese aveva voluto entrare nelle formazioni partigiane comuniste.>>


Un altro sopravvissuto, Mario Bertelli, in un primo momento pensò che comunisti alla fine sarebbero intervenuti in difesa del paese e della popolazione ma si trattò di una illusione che durò poco. Bertelli racconta <<(…) Dal mio nascondiglio potevo sentire l’eco degli spari e delle raffiche. La distanza mi impediva di udire le grida e le invocazioni d’aiuto. Per un po’ di tempo ritenni così che i tedeschi sparassero più che altro per intimidire la popolazione come era già accaduto altre volte. Poi cominciai a vedere il fumo degli incendi. Bruciavano case un po’ dovunque. Mi resi conto che la situazione si stava facendo tragica. Ero solo, senza armi. Tornare in paese in quelle condizioni non sarebbe servito a nulla: non avrei potuto aiutare i miei familiari e sarei caduto subito nelle mani dei tedeschi. Trascorsi così ore di agonia. Alla fine gli spari diminuirono di intensità e poi cessarono del tutto. Mi avviai allora verso l’abitato. Avrei voluto correre ma ero troppo debole a causa della malattia: il terrore di quanto avrei potuto vedere in paese mi piegava le gambe. Quando giunsi, molte case stavano bruciando. Mi avvicinai alla prima: vidi alcuni cadaveri tra le fiamme. Allora corsi urlando come un pazzo verso la mia casa. Era stata distrutta dalle fiamme, ma tra le macerie infuocate non trovai alcun cadavere. Mi spinsi allora fino alla piazza della chiesa, da dove vedevo levarsi un fumo denso. Ma quando vi arrivai, una scena spaventosa mi inchiodò al suolo senza che avessi più la forza di avanzare di un passo: un mucchio enorme di cadaveri stava bruciando lentamente. Ad un tratto mi sentii afferrare convulsamente e una voce, quella di mio padre, singhiozzò: “Sono là dentro… tutti”. Seppi cosi che nell’orribile cumulo e erano anche mia moglie, mia madre, le mie sorelle Pierina e Aurora e mio nipote. La rappresaglia però non si accanì contro tutte le frazioni che compongono Sant’Anna. Nella frazione Sennari, per esempio, le SS diedero fuoco ad alcune case e radunarono tutta la popolazione in una piazzetta. Sistemarono quindi le mitragliatrici per falciare quei poveretti: giunse però all’ultimo momento un ufficiale che impedì il massacro.


Nella frazione Bambini, i tedeschi non bruciarono case e non uccisero alcuno. Le altre frazioni, invece, furono quasi tutte distrutte e gli abitanti massacrati. Non si è mai capito il perché di questa terribile selezione. Una risposta può essere data dal fatto che le SS conoscevano o perlomeno, credevano di conoscere l’ubicazione delle case nelle quali erano stati ospitati i partigiani o, peggio, dalle quali i partigiani avevano fatto fuoco contro i loro camerati. Infatti durante il rastrellamento, accanto ai tedeschi c’era un ex partigiano comunista di nazionalità polacca, diventato spia delle SS (di norma i partigiani presi prigionieri, per evitare di essere fucilati, tradivano sistematicamente i loro compagni, mandandoli a morte certa, oppure si mettevano al servizio dei tedeschi indicando loro le frazioni da distruggere e le famiglie da massacrare perché nascondevano partigiani).


I tedeschi compirono la loro rappresaglia e se ne andarono, dopodiché i partigiani, che erano rimasti a godersi lo spettacolo nascosti poco distante dal centro abitato, rientrarono in paese per compiere ció che fu sempre la prerogativa di questi sciacalli , il saccheggio delle case e l’espoliazione dei cadaveri, non mancando mai di strappare persino eventuali protesi dentarie in oro.


Racconta Amos Monconi:<<(…) Fu allora che qualcuno mi disse che era necessario seppellire subito i morti. Raccolsi un pò di attrezzi e scavai una grande buca. Poi vi trasportai le salme dei miei congiunti e cercai di comporle prima di seppellirle. Mentre mi stavo dedicando a questa terribile incombenza, vidi i partigiani. Erano due. Uno lo conoscevo bene da tempo: era un milanese che si faceva chiamare “Timoscenko”. Si avvicinarono a me. Notai subito che avevano le tasche piene di portafogli, oggetti d’oro e d’argento. Se ne erano infilati anche dentro la camicia. Li guardai senza parlare. “Timoscenko” allora mi disse: “Devi consegnarci tutti i soldi e gli oggetti di valore che trovi sui morti. Siamo noi che dobbiamo prenderli in consegna”. Mi sentii salire il sangue alla testa; impugnai la piccozza e la alzai di scatto; “Vattene” gli dissi… “Vai via se non vuoi che ti spacchi il cranio”. “Timoscenko” esitò un momento poi, senza replicare, si allontanò”. Sul conto di questo “Timoscenko” e altri partigiani comunisti ne abbiamo sentite raccontare di tutti i colori. Furono visti entrare nelle case dove non era rimasto vivo più nessuno e uscirne dopo aver fatto man bassa. Furono anche visti spartirsi il bottino.


Il racconto di Amos Monconi fu confermato da Teresa Pieri, una delle superstiti la quale, raccontando ciò che vide qualche giorno dopo la strage affermò <<(…)scesi a Valdicastello, in una strada riconobbi due partigiani comunisti che avevo visto tante volte a Sant’Anna. Mi avvicinai e mi accorsi che si stavano dividendo soldi, braccialetti, catenine d’oro. Tutta roba rapinata sui cadaveri dei nostri cari>>.


Articolo di Vincenzo Ballerino"